4.
APRITI SESAMO
Sandra
La croce d’oro sembrava la prova di cui avevo bisogno per confermare che i sospetti di Julián non erano mere fantasie e che non stavo diventando pazza. Mi venivano in mente diversi posti dove potevano averla nascosta: in qualche cassetto chiuso a chiave dello studio-biblioteca o nella cassaforte dell’armadio, insieme ai gioielli di Karin. Avrei dovuto scoprire la combinazione per poterla aprire, il che sembrava impossibile lì per lì. Eppure era semplice. Bisognava solo dire: «Apriti Sesamo!».
Quel pomeriggio, il pomeriggio dell’«Apriti Sesamo!», eravamo andate a comprare scarpe e vestiti per la festa di compleanno di Karin, a cui lavoravamo a tempo pieno da parecchi giorni. Tutte le piccole frizioni, o per meglio dire i sospetti e i dubbi, sembravano sparire grazie ai preparativi, che ci costringevano a stare tutto il giorno in fuoristrada per andare in cerca di mille cose. Il vino in un paese dell’interno, i salumi in un altro, le torte in un forno speciale. Il pesce e i frutti di mare li ordinammo in pescheria e così via. L’impresa più difficile fu trovare un vestito nuovo (uno straccio, in confronto a quelli che aveva nell’armadio) e un paio di scarpe.
Era un abito di chiffon rosso un po’ luccicante. Con quello addosso Karin sembrava un regalo, un regalo la cui parte migliore era la confezione. La convinsi a non prendere anche le scarpe rosse, che la facevano sembrare vestita per un matrimonio, ma beige, che era un colore neutro, senza contare che con le dita deformate dall’artrosi non poteva portare tacchi troppo alti. Karin mi dava retta per farmi sentire coinvolta in tutto ciò che era suo. Adorava che parlassimo di lei fino alla nausea, anche se l’argomento di discussione erano i suoi piedi storti, e a me non costava nulla.
«Con questo vestito starebbero bene degli orecchini di brillanti o una collana», dissi distrattamente, senza pensare troppo a quello che dicevo.
«Credo di avere ancora un paio orecchini di brillanti. Se non ricordo male dovrei avere anche una collana di brillanti.»
La sua risposta mi colpì vagamente, non quanto avrebbe dovuto: Karin mi succhiava tutta l’attenzione, ed ero esausta. Continuavano a risuonarmi in testa le sue parole, quelle di chi parla dei suoi brillanti come un altro parlerebbe di un grappolo d’uva rimasto in frigorifero, come se non li avesse dovuti comprare, pagare e nemmeno scegliere. Nessuno parla così dei propri gioielli, per quanti ne abbia e per quanto denaro abbia messo da parte, e questo non era certo il caso di Fred e Karin, che non arrivavano al punto di avere un aereo privato, uno yacht o varie proprietà sparse per il mondo, gli averi che meglio si intonano a tanti brillanti.
Finimmo di far compere che era quasi ora di cena e quando arrivammo a casa, dopo aver salutato Fred, felice perché sua moglie si stava divertendo e perché lui stava guardando una partita di calcio e il mondo si avvicinava lentamente alle tenebre, Karin mi obbligò a salire con lei in camera sua. Anche se ci ero già stata, non avevo mai avuto modo di fermarmi a osservarla bene. Era molto grande e aveva un tocco infantile, disseminata di cuscini e di vecchie bambole che sembravano da collezione e che Frida doveva pulire con estrema cura. Gli armadi, il comò, le mensole, lo scrittoio avevano una forma tondeggiante, al pari delle cassapanche, delle gambe dei mobili e degli specchi. Gli abatjour erano di raso rosa orlato di nappe, le decorazioni dei mobili rigorosamente dorate. E non bisognava essere degli esperti per capire che quelli erano autentici tappeti persiani. Era tutto molto, molto costoso. E il letto rosa doveva essere quello in cui facevano l’amore in quelle notti tremende in cui pensavo che stessero per morire o qualcosa del genere. Mi chiedevo che cosa avessero sentito quelle pareti e quei mobili così femminili, ma mobili e pareti non possono sentire né soffrire. Per questo durano più di noi, sopportano tutto ciò che non siano martellate o qualunque altra forma di distruzione diretta, mentre su noi esseri umani fanno effetto anche gli sguardi e i suoni. E più un suono è basso, più ci turba, quasi stesse parlando di noi.
Karin tirò fuori dai sacchetti le cose che avevamo comprato e le mise sul letto. Sistemò il vestito e le scarpe come se dentro ci fosse lei, rosa come il copriletto.
«Penso che abbiamo indovinato», disse.
E poi fece una cosa semplice come aprire l’armadio, chinarsi sulla cassaforte e aprirla. Quando tirò fuori un’altra cassetta che si trovava lì dentro, una cassetta di legno, io guardai da un’altra parte perché vedesse che non stavo controllando come l’apriva. La mise sul letto accanto al vestito. Ci infilò la mano e tirò fuori dal fondo una collana di brillanti. Ce n’era anche una di vari giri di perle con i braccialetti in pendant, diversi ciondoli, diademi e anelli. Se non avessi saputo che era tutto autentico avrei pensato che si trattasse di bigiotteria, di quella dei negozi dove si vende tutto a un euro. Karin ci infilava la mano come in una montagna di paccottiglia.
«Un tempo, quando infilavo il braccio nella cassetta, i gioielli mi arrivavano fino al gomito», disse.
Appoggiò la collana sull’immaginario collo rosa disegnato dal copriletto. Stava benissimo con il rosso del vestito.
«Posso?» chiesi avvicinando la mano ai piccoli luccichii che uscivano dalla cassetta.
«Ma certo, cara», disse lei con quel suo modo di parlare un po’ démodé. «Provati quello che vuoi: è tutto autentico.»
Presi degli orecchini di rubini e li provai appoggiandomeli sulle orecchie, ma senza arrivare a metterli. Non volevo indossare gioielli che probabilmente erano stati tolti a qualcuno, magari insieme alla vita. Mi guardai nello specchio dalla cornice dorata e vidi che lei mi osservava.
«Non hai ancora l’età per portare queste cose», disse, perché non mi saltasse in mente di invaghirmene. Li rimisi nella cassetta e continuai a tirare fuori altri gioielli e a guardarli alla luce, quando vidi una scatolina sul fondo.
«Perché non ti provi il vestito con la collana?» le proposi. «Voglio vedere come stanno insieme.»
Mentre si spogliava, io lanciavo occhiate distratte ai gioielli. Quando finalmente lo ebbe indossato e rivide estasiata allo specchio la leggendaria infermiera Karin pronta per un’altra festa, con la mano destra aprii la scatolina di velluto. Dentro c’era una croce, la croce che avevo visto nei film appesa alle uniformi naziste. Il cuore mi sobbalzò in petto e le mani iniziarono a tremarmi e a sudarmi mentre la richiudevo bene. Quando Karin si girò verso di me, tirai fuori una collana di perle e la sgranai fra le dita. Mi concentrai sulle perle per tranquillizzarmi.
«Bellissima, Karin, bellissima. Vuoi che ti veda Fred?»
«No!» rispose bamboleggiando più che poteva. «Voglio che sia una sorpresa.»
Seppellii bene la scatolina fra i gioielli e quando Karin si cambiò e li ripose nella cassaforte la invitai a controllare che non ne fosse caduto nessuno. Lo dissi perché volevo che si fidasse di me, e lei infatti mi diede retta e passò varie volte la mano fra le pietre, come se solo al tatto potesse capire cosa c’era. C’era tutto, così la lasciai da sola a richiudere la cassaforte.
Prima di conoscere Karin non mi sarebbe mai venuto in mente che il male finge sempre di fare il bene. Karin fingeva sempre di fare il bene, ed evidentemente lo aveva fatto anche quando uccideva o aiutava a uccidere degli innocenti. Il male non sa cosa sia il male finché qualcuno non gli strappa la maschera del bene.